In questo post parlerò di narrazione fotografica o story telling fotografico, come ormai siamo abituati a dire, e cioè la voglia di usare la fotografia per raccontare storie.
Raccontare è un percorso complesso e senza scomodare semiotica o psicologia del linguaggio visivo, non sempre riusciamo nell’intento come vorremmo.
Migliorare correggendo alcuni errori comuni
Raccontare una storia che arrivi passa attraverso la correzione di alcuni errori che ho notato essere piuttosto comuni.
Molto spesso i nostri scatti riescono a trasmettere soltanto in modo molto parziale le potenzialità narrative che alcune scene ci offrono e solo qualche volta la colpa è da addossare all’attrezzatura o alla tecnica. Molto più sovente si tratta di un problema di approccio.Quante volte, riguardando gli scatti finali, ci siamo dovuti rammaricare del fatto che, sebbene le nostre foto fossero corrette, addirittura belle, non riuscivano a trasmettere le sensazioni che avevamo vissuto sulla scena, al momento del click.
Eppure c’era parso di fare tutto nel modo giusto… l’esposizione, la composizione, la scelta della focale…
Di cosa soffrono i nostri scatti?
Per nostra fortuna di malattie facilmente curabili, alla cui base possiamo individuare una serie errori piuttosto comuni, capaci però di limitare drasticamente l’empatia che ci saremmo aspettati dalla scena e dalla storia.
Analizziamo alcuni di questi errori.
Semplici spettatori
Ecco il primo! Immaginiamo di assistere ad una festa, ad un ballo, ad una parata… proprio davanti a noi. E noi cosa facciamo!? Ci sistemiamo ai bordi della scena, la nostra macchina fotografica in mano e scattiamo le nostre foto da lì, dalla periferia, da fuori.
Ci comportiamo da semplici spettatori, senza mai prendere parte a quello che sta accadendo di fronte al nostro obiettivo.
Più o meno consapevolmente, creiamo una distanza tra noi e quello che fotografiamo e questa distanza, che non è soltanto fisica, non può che tradursi in scatti poco coinvolgenti e scarsamente empatici.
Se non siamo coinvolti noi, che per lo meno avevamo il privilegio di essere sulla scena, come potremmo sperare di coinvolgere chi guarderà successivamente quello che abbiamo scattato.
Spogliamoci dunque dei comodi panni dello spettatore ed entriamo nella scena, anche fisicamente, quando ci è consentito.
La fotografia non è per gente timida. Questo non significa comportarsi in modo irrispettoso o infrangere leggi e regola, ma vorrebbe farci capire che se non ci lasciamo coinvolgere, se non lavoriamo per azzerare la distanza tra noi e il soggetto, quello che raccontiamo con la nostra fotocamera faticherà ad emozionare e molto spesso fallirà nel suo scopo.

© Walter Meregalli – Processione in onore di Shiva. “Entrare” nella scena, spesso, significa farlo anche fisicamente
Se mi fossi limitato a fare da spettatore della processione, se non mi fossi spinto fin sotto a questo suonatore di tamburi, pensate che l’empatia che potenzialmente poteva regalarmi questo scatto sarebbe rimasta tale? Io dico di no.
La distanza della quale parlo, però, non è sempre e soltanto fisica.

© Walter Meregalli – Festa per Shiva, Jaisalmer. Stabilire un contatto, una qualche relazione con i soggetti ritratti fa diminuire la “distanza” e aumentare l’ingaggio con chi guarda. Fa bene alla nostra storia!
Non restiamo ai bordi della scena. Non fotografiamo da spettatori. Stabiliamo un contatto personale con chi stiamo fotografando.
Corteggiamo la nostra storia
Non mi sono bevuto il cervello. Non basta avere una macchina fotografica in mano per essere un fotografo, come non basta avere un buon soggetto di fronte per scattare una buona foto.
Impariamo a leggere le potenzialità di una scena, indipendentemente dal tipo. Impariamo a non essere precipitosi.
La fretta è il nostro peggior alleato nell’arte di corteggiare la scena, ma questo non ci autorizza a “perdere tempo”, ma bensì a comprendere come far fruttare al meglio il tempo che spendiamo sulla scena.
Se la scena evolve, dovremo imparare ad anticiparne i possibili cambiamenti – cosa per nulla semplice e che richiede una certa pratica.
Se invece la scena è statica, come nel caso di edifici, monumenti o un paesaggio in generale, avremo soltanto guadagnato in comodità, ma il ragionamento alla base non è poi così differente.
Corteggiare la scena: significa capirne le potenzialità e farsi trovare pronti qualora si manifestassero. Significa comprendere quando la composizione è corretta, ma la luce migliore non è ancora giunta. Significa vedere l’inquadratura meno ovvia, stuzzicarla con focali diverse, ad esempio. Il fotografo che impara a corteggiare la scena, solitamente racconta storie più interessanti.

© Walter Meregalli – Colpo di culo ad Essauoira.
Io solo so quanto ho aspettato per questo scatto della kasba di Essauoira al crepuscolo. Ho atteso “la luce giusta”, “le nubi giuste”. Ho indugiato affinché la città cominciasse ad accendere le sue luci.
Per più di un’ora sono rimasto abbarbicato sugli scogli, provando tagli, inquadrature e tempi di posa. “Giocavo” con la scena, vedendo fin dove avrebbe mantenuto le promesse iniziali.
Il vero segreto è proprio questo: imparare a riconoscere le potenzialità di una scena, le promesse – che ahimè, per fin troppi motivi, non è detto che vengano onorate.
Ho atteso e la scena ha deciso di farmi un regalo e di premiare la mia costanza e fedeltà, facendo comparire un giovane, vestendolo di bianco e facendolo restare perfettamente immobile per tutto il tempo che mi serviva, illuminato dalla luce del suo cellulare – il mio colpo di culo. Sì, la fotografia è anche culo, non lo nego, ma se mi fossi accontentato della prima inquadratura, per altro nemmeno poi così diversa da quella dello scatto finale, me ne sarei tornato al riad con un’altra foto delle mura al tramonto.
Non aspettiamoci che vada sempre a finire così, ma impariamo a flirtare con la scena non può che farci bene.
Anticipare per raccontare meglio
La fotografia è sintesi. A meno che non si scelga di raccontare una storia attraverso un reportage o un essay, dobbiamo essere in grado di sintetizzare una trama e i suoi protagonisti nel perimetro di uno scatto.
È un esercizio complesso, che tocca la semiotica, la psicologia e, più in generale, la teoria della comunicazione. Sperando che gli appassionati di teoria non s’indignino, se proviamo a tradurre tutto questo in pratica, per sintetizzare una storia in uno scatto è necessario individuare il climax.
Molto spesso il climax di una storia fotografica è sintetizzato in un gesto e saper cogliere quel gesto decreterà una storia raccontata bene e altre meno bene.
Ecco perché, se vogliamo migliorare la nostra capacità di sintetizzare una storia in uno scatto, dobbiamo imparare a leggere in anticipo i movimenti e i gesti dei nostri soggetti.
Che si tratti di soggetti umani, che si tratti di animali o, più semplicemente di oggetti in movimento, dobbiamo allenarci a capire sempre più rapidamente il flusso dei soggetti all’interno della scena, decidere quale potrebbe essere il gesto o la posizione che secondo noi racconterebbe meglio la storia e anticipare mentalmente, ma anche fisicamente, se è necessario, i movimenti dei soggetti, facendoci trovare pronti con l’indice sul pulsante di scatto quando quel momento si presenterà – sempre che si presenterà (!).

© Walter Meregalli – Sorriso
Quei baffi. Quel sorriso. E se avessi scattato prima, non appena lo avevo visto!? O dopo!? Le mani che accarezzano i baffi e l’espressione soddisfatta e gioviale sintetizzano la mia storia. Non avevo nessuna certezza che lo sconosciuto avrebbe fatto quel gesto e assunto quell’espressione, ma me lo sono augurato e l’ho anticipato. Poi s’è trattato soltanto di schiacciare il pulsante.
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