Come promesso, ecco il seguito al post dedicato alle prime dieci domande che ognuno di noi, con in mano una macchina fotografica, dovrebbe porsi prima di scattare – se ve lo siete persi, cliccate qui.
Nel primo post, le domande erano chiaramente rivolte verso l’esterno, verso la scena. In questo secondo post, elencherò dieci domande più legate alla composizione, alla tecnica e al processo creativo, più in generale (rivolte verso l’interno).
Giusto per fare un rapido riepilogo di quanto ho scritto qualche giorno fa: sono personalmente convinto che riesca ad essere un fotografo migliore chi sa porsi le domande giuste, piuttosto che chi ha tutte le risposte. Se volete capire meglio cosa intenda, ripeto: cliccate qui.
Andiamo oltre, concentriamo sulle prossime dieci domande.
Posso semplificare la mia inquadratura? La semplicità è uno dei concetti ai quali tengo maggiormente. Personalmente sono convinto che a parità di concetto, a parità di intento, a parità di tecnica, uno scatto con un’inquadratura più asciutta funzioni MOLTO meglio. Pensateci e riguardate gli scatti che amate dei maestri della fotografia, non trovate che vivano di una disarmante e potentissima semplicità? Impariamo ad individuare ciò che è superfluo e ad eliminarlo dalla nostra inquadratura. C’è sempre qualche dettaglio che non aggiunge nulla alla nostra storia, molto bene… eliminiamolo! Come? Semplice: modificando l’inquadratura, ad esempio scegliendo un obiettivo diverso o abbassando il punto di ripresa o alzandolo, intervenendo sull’angolo di ripresa, limitando la profondità di campo. Gli strumenti a disposizione sono molti, impariamo a combinarli, ma muoviamoci verso la semplicità. Asciugare l’inquadratura è però un processo creativo delicato. Dobbiamo infatti fare attenzione a non disfarci di elementi necessari perché la storia che stiamo raccontando risulti chiara e se riusciremo a mantenere intatto il messaggio, riducendo gli elementi presenti, di sicuro il nostro scatto non passerà inosservato. Alleniamo ad asciugare!
Sto usando la profondità di campo in modo corretto? Solo noi possiamo rispondere a questa domanda, ma la domanda dobbiamo porcela. E se sfocassimo maggiormente lo sfondo, il soggetto riuscirebbe comunque a reggere il peso della narrazione!? Se invece tenessimo tutto a fuoco!? Che storia staremmo raccontando!? La stessa!? Un’altra!? Migliore!? Peggiore!? Ecco cosa dobbiamo imparare a chiederci quando scegliamo apertura e focale. Mi piace molto una frase di David duChemin, un fotografo canadese, a proposito della profondità di campo: “Il diaframma che scegliamo crea una danza tra impatto e informazione”. Ed è su questa la danza che vogliamo balli la nostra storia. Evitiamo di ragionare a compartimenti stagni, del tipo ‘ritratto uguale minima profondità di campo’ o ‘panorama uguale tutto a fuoco’. Sono due regole dettate dal buon senso, ma non per questo non vale la pena dubitarne e vedere se, qualche volta, aggirarle non crei uno scatto in grado di raccontare meglio la nostra storia, più in linea con il nostro intento.

Fuoco molto selettivo per esaltare il soggetto
Sto davvero guidando l’occhio di chi guarda nel modo migliore? Lo scopo finale della composizione, nelle arti visive, è appunto questo: guidare l’occhio di chi guarda attraverso l’inquadratura. Non dobbiamo mai dimenticarlo, anzi, dobbiamo sempre chiederci se lo stiamo facendo nel modo migliore, nel modo che lasci meno spazio all’equivoco. Gli strumenti che la composizione fotografica ci mette a disposizione sono molti – simmetria, regola dei terzi, linee guida, vignette, e altri ancora – non importa quale scegliamo, ciò che importa è che sia funzionale alla scena e alla storia che vogliamo raccontare, scattando la nostra fotografia. La composizione è una di quegli aspetti della fotografia che NON s’improvvisa, ma si studia! Datemi del pedante, datemi dell’antico, ma io la penso così e penso che, i fotografi in grado di padroneggiare le varie soluzioni offerte dalla composizione, sappiano scattare fotografie più potenti, più dirette, vabbè, lo dico… migliori. Qualunque sia la soluzione compositiva che sceglieremo per fotografare la nostra scena, assicuriamoci che non la trasformi in un vuoto esercizio, ma aiuti a raccontare quello che abbiamo in mente. Cerchiamo linee guida. Cerchiamo simmetrie. Spostiamoci, inquadriamo il soggetto principale sui terzi. Staniamo le ripetizioni, le interruzioni, i pattern, i contrasti cromatici, le forme. Apriamo occhi e testa e non accontentiamoci subito della prima soluzione, della soluzione più ovvia.

Mercato di Nizamudin, le linee guida della scena convergono verso il soggetto principale (il ragazzo), che di rimando, con lo sguardo e la posa, rimanda ad un secondo soggetto (i fiori). Nel mio intento, per raccontare al meglio le viuzze che anticipano il tempio, dovevo dare risalto sia alla presenza umana, sia ai fiori, grandi protagonisti del luogo
Posso sfruttare meglio le linee guida presenti nella scena? Molti concetti della composizione fotografica poggiano su assiomi di una semplici quasi imbarazzante, tanto che continuo a domandarmi come sia possibile che un esercito di fotografi insista nell’ignorarli o nello sfruttarli in modo del tutto inefficace. In ogni scena, siamo in grado di riconoscere le linee guida sulla quale costruire una possibile inquadratura. Domandiamoci se il punto di ripresa che abbiamo scelto davvero sfrutti al meglio le linee guida che ci mette a disposizione la scena. A volte è sufficiente alzarsi o abbassarsi un po’ per ottenere risultati diversi, in termine di tensione o drammaticità. La mia personalissima ricetta è quella di muoversi attorno e attraverso la scena – per quanto possibile. Camminiamo lungo il perimetro della scena, spostiamoci a destra, a sinistra, entriamo di qualche passo, allontaniamoci. Accucciamoci, sdraiamoci, saliamo una rampa di scale, incliniamo la macchina. Insomma, esploriamo! Più ci concediamo il lusso di farlo e più alternative avremo per inquadrare meglio la scena e più le linee guide presenti faranno “il loro sporco lavoro”.
Sono abbastanza vicino? Robert Capa diceva:’se le tue foto non sono buone, vuol dire che non era abbastanza vicino’ (!). Un concetto piuttosto radicale, soprattutto per uno che ha passato gran parte della sua vita a schivare pallottole, con la macchina fotografica sempre in mano – una mina gli fu fatale, in Indocina nel ’54, non è che forse era un po’ troppo vicino per quello scatto!? Non sempre la filosofia di Capa paga, ma la domanda dobbiamo porcela. Siamo abbastanza vicini al nostro soggetto? Soprattutto coloro che si sono avvicinati alla fotografia da poco tendono a stringere sul soggetto, quasi intimoriti. Chiediamocelo. Chiediamoci se davvero abbiamo esplorato la scena al meglio e abbiamo fatto la scelta migliore. Addosso non è un concetto valido soltanto per i dettagli, a volte scegliendo una lente con una focale ridotta, possiamo avvicinarci ancora di più al nostro soggetto, senza per questo sacrificare nulla della scena. Pensiamoci. Pensiamoci e chiediamoci se la scelta potrebbe raccontare meglio la nostra storia. Qualche anno fa comprai un obiettivo macro e cominciai ad esplorare la via del vicino, anzi vicinissimo e ho capito che da vicino il mondo è molto diverso da come siamo abituati a vederlo e a raccontarlo. Poi, qualche anno dopo, ho comprato un grandangolo spinto e ho cominciato ad esplorare la via del vicino, ma dentro tutto e anche lì ho scoperto come il mondo, attraverso la distorsione di una lente breve possa celare storie inedite e ai confini del surreale. Non dobbiamo aver paura di avvicinarci – ma attenzione alle mine!
C’è equilibrio? L’equilibrio! Che concetto incredibile. In termini di composizione fotografica, l’equilibrio è la relazione dei diversi pesi visivi delle forme che delineano gli elementi presenti nell’inquadratura. Ogni elemento ha un peso all’interno dell’inquadratura – anche lo spazio bianco, anche il vuoto ha un suo peso – e questi pesi interagiscono tra loro, creando più o meno un equilibrio. Si parla spesso di scatti ben bilanciati, questo accade quando il fotografo sa posizionare nell’inquadratura gli elementi affinché i loro pesi interagiscano in maniera armonica, attraverso presenza, posizione e grandezza, ma anche colore. L’equilibrio, per sé, non è né un concetto giusto, né un concetto sbagliato, ma ancora una volta è una via attraverso la quale raggiungere il nostro scopo: raccontare al meglio attraverso le immagini. Voglio un’immagine bilanciata o uno scatto volutamente sbilanciato? Se mi sposto o se sposto il mio soggetto attraverso l’inquadratura, l’equilibrio ne guadagna? Ne soffre? E la mia storia? E se aggiungessi dello spazio vuoto? O se ne togliessi? Impariamoci a chiedere questo.

L’equilibrio è un concetto molto personale
Riempio l’inquadratura o aggiungo spazio? Altro dilemma dai toni quasi amletici. Sono un fanatico di entrambe le soluzioni, ma non di quello che sta in mezzo, perché, mai come in questo caso, sono convinto che non è che stia la virtù. Personalmente, sono per scelte consapevoli e decise. Se scegliamo di riempire l’inquadratura… RIEMPIAMOLA DAVVERO! E così, se decidiamo di aggiungere spazio, AGGIUNGIAMOLO IN MODO SIGNIFICATIVO, palpabile! Le mezze misure, le scelte titubanti non pagano, secondo me. E se poi ci fermiamo un momento a pensare, la domanda, teoricamente, è mal posta! Sì, avete capito bene, perché anche lo spazio vuoto è un elemento, per cui, aggiungendo spazio vuoto non facciamo altro che riempire l’inquadratura. Contorto, lo so, ma il senso non cambia di molto. Che si tratti di spazio vuoto, che si tratti di altri elementi, scegliamo inquadrature chiare, esplicite e possibilmente non banali.
Quale orientamento funziona meglio? Ottima domanda! L’80% (dato pressoché reale) delle fotografie scattate nel mondo è orizzontale – con inquadratura parallela al suolo e ad altezza occhi. A meno che non abbiamo per le mani una macchina con sensore, l’orientamento dell’inquadratura influisce in modo determinante sul nostro scatto finale. Se è vero l’assioma per il quale che ciò che non inquadriamo non esiste, dobbiamo anche capire che ciò che esiste, e cioè la porzione di scena inquadrata, non può non venire influenzato, caratterizzato, esaltato o sminuito dal perimetro dell’inquadratura stessa. Quale orientamento scegliere!? Chiediamolo alla scena, per prima cosa. In ogni scena ci sono elementi che chiamano fortemente uno scatto orizzontale o un’inquadratura verticale. A volte basta assecondarli, ma non perdiamo l’occasione per porci la domanda e provare invertire l’orientamento dell’inquadratura. A volte, forzando l’ovvio suggerimento che ci offre la scena e scegliendo di invertire l’orientamento dell’inquadratura otteniamo risultati più drammatici, più vibranti, più emozionanti. Meno scontati.

La stessa scena, due approcci diversi. Nonostante gli elementi “chiamassero” un orientamento verticale, alla fine ho scelto l’alternativa orizzontale, che mi sembra più dinamica
Ho controllato i bordi dell’inquadratura? L’errore più comune del principiante e dell’esperto svogliato: non badare ai bordi dell’inquadratura. Troppo spesso ci concentriamo soltanto sul centro dell’inquadratura, salvo poi accorgerci, quando ormai è tardi, di aver lasciato dentro una serie di elementi del tutto casuali o di aver tagliato, involontariamente, piedi, mani o altro del nostro soggetto, senza che questo però rispondesse ad una scelta creativa consapevole. I bordi, questi sconosciuti. Rovinano più scatti piedi che entrano per sbaglio e sacchetti dimenticati nell’angolo basso che esposizioni poco curate. Prendiamoci il tempo per controllare bene i bordi della nostra inquadratura e ricordiamoci che se la nostra reflex non è full frame, il mirino non copre il 100% dell’inquadratura, ma soltanto una porzione che varia dal 92% al 95%, per cui: maggior attenzione!
E se infrangessimo le regole? Perché no!? A patto però di averle prima imparate. Infrangere le regole non significa scattare a caso, ma interpretare in modo personalissimo ciò che la teoria considera corretto, se questo serve a raggiungere un risultato creativo che sposi meglio il nostro intento, che lo esalti. A volte sovraesporre volutamente – ma non di un timido 1/2 stop! – contribuisce a creare immagini eteree molto emozionanti, così come sottoesporre, sempre intenzionalmente, può regalarci scatti intensi, drammatici. Pensiamo al panning, pensiamo ad uno scatto a mano, anche oltre tempi di scatti entro i quali è considerato sensato farlo, pensiamo ad un paesaggio sfocato, se ciò che resta riconoscibile è forte abbastanza. Insomma, pensiamo ad una regola e proviamo ad infrangerla. Noi, e soltanto noi, sappiamo se farlo può essere utile. Personalmente, la trovo una soluzione creativa da usare con parsimonia e che si adatta molto bene soltanto a scene particolari. Ma la domanda vale la pena di farcela sempre.

Un cameriere in Rajasthan. Mi piaceva evocare un’atmosfera marcatamente onirica, da fiaba. Tre stop di sovraesposizione, se non di più. Tecnicamente una foto “sbagliata”, creativamente uno scatto azzeccato
Ed eccoci alla fine di questo lungo post che spero non vi abbia annoiato oltre misura. Dieci domande verso la scena e dieci verso di noi e il bello è che qualsiasi risposta daremo alle nostre venti domande, sarà sempre la risposta corretta, a patto che sia la risposta che rispetta il nostro intento fotografico.
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