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I maestri della fotografia: Gianni Berengo Gardin

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Per il grande Salgado, Gianni Berengo Gardin è “semplicemente” Gianni e già questo dovrebbe, se non altro metterci in guardia: siamo di fronte ad uno dei più grandi fotografi italiani di sempre e, secondo il mio modestissimo parere, anche del mondo.

Gianni Berengo Gardin è sicuramente il grande vecchio della fotografia, ma questo, sia ben chiaro, non vi faccia accostare l’aggettivo vecchiosorpassato o superato. Quando si parla di Berengo Gardin vecchiogrande andrebbero sempre accostati per significare saggio, maestro, guida – tutti appellativi che l’ottasettenne fotografo di Santa Margherita Ligure rifugge per carattere.

Nato nel 1930, Berengo Gardin inizia ad occuparsi di fotografia in maniera professionale nel 1954 e, dopo aver trascorso qualche anno tra Roma, Venezia e Parigi, si trasferisce nel 1965 a Milano, dove comincia la sua lunghissima carriera di fotografo, dedicandosi al reportage, all’indagine sociale e alla fotografia di architettura.

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A mio avviso il più grande story teller fotografico italiano. Dotato di una sensibilità umana e fotografica incredibile, Berengo Gardin, nella sua lunghissima carriera, ha saputo affrontare temi sociali di grandissima importanza, uno tra tutti il progetto “Morire di classe” realizzato sul finire degli Anni Sessanta e ambientato negli istituti psichiatrici italiani. “Morire di classe” ha svelato al grande pubblico una realtà  fino ad allora conosciuta soltanto dagli addetti ai lavori, facendo luce per la prima volta su un mondo “abitato da fantasmi, privati di qualsiasi dignità”. Il reportage di Berengo Gardin ha contribuito a formare un movimento d’opinione, fondamentale per la svolta epocale, avvenuta nel 1978, con l’approvazione della legge 180, nota a tutti come “Legge Basaglia” e la successiva chiusura dei manicomi.

“Il difficile non era fotografare la malattia, ma le condizioni alle quali era costretto il malato.” – con queste parole, asciutte, come suo costume, Gianni Berengo Gardin ha commentato quello che forse è stato uno dei reportage fotografici che ha avuto maggior impatto nel tessuto sociale della storia del nostro Paese.

Ma Berengo Gardin non è soltanto “Morire di classe”, magistrali sono i suoi scatti dedicati al mondo del lavoro, che raccontano il quotidiano con un linguaggio fotografico in largo anticipo sui tempi, come preziosi sono i suoi ritratti, che fotografano un’Italia scomparsa per sempre, attraverso una serie di ritratti ambientati dalla vibrante forza comunicativa.

Nessuno di noi, che tanto amiamo chiamarci e farci chiamare “fotografi”, dovrebbe ignorare i lavori del grande vecchio di Santa Margherita Ligure – soprattutto gli appassionati dell’ultima ora, figli della tecnologia e del tutto-subito. Gli scatti di Gianni Berengo Gardin, anche quelli che a prima vista potrebbero sembrare casuali, anche quelli più rubati, poggiano sempre su una composizione accurata, frutto di una consapevolezza autorale chiara.

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“Prima pensa, poi scatta.”  A mio avviso la frase del maestro ligure più importante per qualsiasi fotografo. Un comandamento. Pensare a quello che si intende comunicare, pensare a come lo si vuole fotografare. Pensare!

Gianni Berengo Gardin è schivo, parla poco, ma le parole che dice sono quasi sempre insegnamenti importanti per qualsiasi appassionato di fotografia. Ho raccolto alcune sue frasi, prese da libri e interviste:

“Cerco ogni volta una storia diversa, perché egoisticamente voglio vivere ogni singola storia che fotografo. (…) Hai sempre da imparare.”

“(…) Volevo essere artista: le belle fotografie, ma ho capito che esisteva un altro modo di fotografare e che non mi interessava più diventare artista, ma giornalista. Se prima, per me, la macchina era come il pennello per il pittore, poi diventò come la penna per lo scrittore.”

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