La fotografia non è una passeggiata, anzi spesso è frustrazione.
Lo so, mi attirerò le ire di una nutrita schiera di guru della fotografia zen che predicano il divertimento attraverso lo scatto e santificano un’attività dolce e rinfrancante, scevra da ansie e sostenuta da continui successi, distribuiti lungo una curva d’apprendimento ripida come la nord del Cervino.
Amici cari… NON È COSÌ!

Potrebbe sembrare una passeggiata… non lo è!
La fotografia è frustrazione
Fidatevi, è così: la fotografia è frustrazione. Beh, forse farei meglio a dire “è anche frustrazione”, ma di certo non date retta a chi vi cerca di convincervi che la fotografia sia una passeggiata.
Come tutte le attività creative, anche la fotografia porta con sé un carico variabile di frustrazione e di ansie da prestazione, appesantito, alle volte, dal famigerato blocco creativo – al quale dedicherò di sicuro un post più avanti.
La frustrazione è una bestia in perenne agguato… quando uno scatto non viene proprio come ce lo immaginavamo; quando guidiamo per ore, dopo esserci alzati prima dell’alba, soltanto per vedere la nostra scena mozzafiato venir cancellata da un banco di nubi incolori; quando pensavamo di aver capito tutto sull’esposizione e ci accorgiamo che non è proprio così. Basta davvero poco.
Ho passato gran parte della mia vita immerso in attività creative, dalla fotografia, alla pubblicità, al design grafico, passando per la musica e la scrittura, e vi chiedo di fidarvi quando vi dico che fotografare non è una passeggiata e che dovremo spesso fare i conti con frustrazioni di origini diverse.

La frustrazione dell’insuccesso
Come vi anticipavo qualche riga sopra, creatività e frustrazione vanno a braccetto. Dobbiamo considerare quest’aspetto una sorta di assioma della fotografia e imparare a reagire in maniera positiva, in modo da trarne beneficio.
Il giorno che fotografando non proverò più frustrazione, significherà che mi sono seduto o che mi muovo all’interno di un perimetro di tecnica, linguaggio e creatività che rischia di trasformarsi in una prigione.
Se sarò immune dalle frustrazioni, significherà che non sto sperimentando nulla di nuovo e che sto semplicemente limitandomi a ripetermi.
Non fraintendetemi, fotografare non significa sperimentare con ogni scatto, ma piuttosto trovare una propria personalità e riuscire ad esprimerla, a patto di non considerarla una dimensione statica e definita per sempre, ma assecondarne i cambiamenti, anche se questo significa commettere errori.

La frustrazione dell’attesa
Se qualcuno vi ha per caso detto che la fotografia vive il tempo di un click, nel migliore dei casi mirava ad indorare la pillola, nel peggiore, non sapeva di cosa stesse parlando.
Non sono molti gli scatti che nascono e si concludono, magari anche con un certo successo, nel tempo di un click. Qualche volta capita, ma credetemi, è un po’ come se si compisse un miracolo, come se si rivelasse in qualche modo il mistero della transustanziazione fotografica, dove cuore, testa e occhio si allineano. La normalità vive di attese e di anticipazioni, più o meno protratte.
Tolto lo still life e il ritratto, o la fotografia di moda, quasi tutte le altre tipologie di fotografie comportano più tempo speso a camminare, attendere, anticipare e visualizzare che non a scattare. Se questo è più esplicito nella street photography o nella fotografia di viaggio, credetemi, lo stesso, magari con dinamiche diverse, accade anche nella fotografia di sport, in quella naturalistica e nella fotografia di paesaggio.
Chi fotografa in viaggio deve fare i conti con molto tempo dedicato a camminare, chi fa street photography ad attendere, chi invece fotografa lo sport dovrà abituarsi ad anticipare i movimenti degli atleti, per non parlare di chi si dedica alla fotografia naturalistiche e alle numerosissime ore passate in appostamento.
Più le aspettative crescono, più i progetti si fanno complessi e meno è il tempo che dedichiamo al click. Pensate che in un generico progetto fotografico professionale il tempo dedicato allo shooting rappresenta soltanto circa il 60% del tempo totale e all’interno di questo 60% vengono inclusa le attese, gli appostamenti, gli spostamenti sulla scena o tra una scena e l’altra e così via.

Ecco come più o meno viene suddiviso il tempo totale dedicato a un progetto fotografico
La frustrazione del buio oltre la siepe
Ognuno di noi si crea la sua comfort zone, un’area fatta di tecnica, trucchi, scorciatoie, regole e linguaggio entro la quale ci muoviamo con agio ed entro la quale scattiamo con serenità. Ma non sempre questa serenità è sinonimo di buona fotografia.
Non c’è nulla di male nell’insistere nel rimare all’interno del perimetro delle tecniche note, del linguaggio conosciuto o delle regole comprovate. Non c’è nulla di male, ma, complice il tempo e la ripetizione, la nostra fotografia perde via via mordente, appeal e noi rischiamo di perdere, per contro, interesse per la stessa.
La nostra comfort zone è delimitata da una siepe immaginaria e oltre la siepe, il buio, la frustrazione dell’insuccesso, dell’ignoranza, dell’ineguatezza. Tutto molto naturale e per fortuna tutte sensazione, seppur sgradevoli, temporanee.
Osiamo avventurarci nel buio di tecniche che non sono ancora nostre, nel buio di linguaggi che conosciamo appena. La frustrazione ci travolgerà, ma se riusciremo a rialzarci e a non scappare con la coda tra le gambe nella nostra comfort zone, forse, avremo fatto un discreto passo in avanti nel nostro approccio alla fotografia.
Chi si trova a suo agio a scattare paesaggi, si butti nel ritratto. Chi fa street, provi qualche paesaggio. Chi lo mette sempre e soltanto sui terzi, provi a risultare altrettanto efficace con la simmetria. Chi vede nel flash l’anticristo, si avvicini allo strobismo (dal termine inglese viene “strobe”, che indica il flash a slitta). Chi fotografa soltanto per se stesso, provi a realizzare un progetto e a tradurlo in un libro, magari da regalare agli amici, o a trasformarlo in una piccola personale. E così via…

La paura dalle cose che ancora non si conoscono è naturale, ma è una reazione che dobbiamo imparare a portare dalla nostra parte, traducendola in sprone a studiare, a patto di farlo con i giusti tempi e senza aspettative da super eroi.
La frustrazione dell’ignoto
“Non imparerò mai a fotografare, ci sono troppe cose che non conosco, troppe!”.
Questa è la paura più diffusa tra i principianti e basta uno scatto, diciamo, così così, per far sì che scateni ansia, prima, e frustrazione poi, fino a sfociare in veri e propri blocchi, che, se si protraggono, possono addirittura trasformarsi in un rigetto in piena regola.
Quante volte ho assistito alla scena madre di un principiante in preda ad uno sbotto di collera, innescato dall’ennesimo dubbio irrisolto. Urla, imprecazioni, reazioni isteriche… tutto nella norma.
Se bastasse possedere ed usare una macchina fotografica per poter affermare di essere fotografi, probabilmente mi toccherebbe cercare un nuovo impiego.
La fotografia è un meraviglioso connubio di arte e tecnica e la sua immediatezza è soltanto apparente, oltre che ingannevole. Provate a rispondermi, se invece della fotocamera aveste acquistato dei pennelli e degli acquerelli, sareste certi, come lo siete con la fotografia, di essere degli acquerellisti capaci sin dai primi tentativi? Io dico di no. Bene, la cosa vale anche per la fotografia, non lasciatevi ingannare dal fatto che possa sembrare che basti schiacciare un pulsante.
Nonostante insista nel dire che la tecnica fotografa poggi su un assioma di base piuttosto semplice (il triangolo dell’esposizione), non significa che fotografare sia una questione banale, senza considerare il suo aspetto molto personale, se non addirittura intimo.
La rivoluzione digitale e gli smartphone hanno fatto avvicinare alla fotografia un numero di persone che soltanto una quindicina di anni fa sarebbe stato considerato prossimo allo sproloquio. Praticamente, chiunque possegga uno smartphone ormai scatta fotografie e, dal momento che il risultato è immediato, molti lo fanno senza porsi nessuna domanda, rincuorati dal marketing dei produttori stessi che, mostrando esempi sbalorditivi e molto spesso ben oltre la pubblicità ingannevole, passano il messaggio che per fotografare – ma è implicito che intendano farlo bene – non servano nozioni di nessun genere, non serva studiare e tutto è semplicemente così immediato.
Ci stanno raccontando una menzogna, non è così!
Se quella che abbiamo tra le mani è un DSLR e non uno smartphone e noi siamo intenzionati a crescere come fotografi mettiamoci in testa che la tecnica fotografia va studiata, così come la composizione, così come i diversi linguaggi.
Fatto!? Molto bene. Ora mettiamo nella testa anche che per farlo dobbiamo accordarci del tempo e non dobbiamo pretendere di imparare tutto subito.
Per cui, non spaventiamoci se sono più le nozioni che ignoriamo di quelle che conosciamo e impegniamoci piuttosto fare in modo che le nostre conoscenze, attraverso la pratica, riescano via via ad innescare i giusti automatismi mentali e fisici, solo dopo la fotografia diventerà una questione immediata.
Non vergogniamoci di non sapere, vergogniamoci piuttosto di non essere curiosi. Diamoci tempo, ma non adagiamoci sul tempo che ci concediamo.
Non vergogniamoci di commettere errori, vergogniamoci invece di fare le cose a caso, vergogniamoci di scattare senza capire le dinamiche che concorrono a produrre i nostri scatti – l’ignoranza della tecnica, della composizione, del linguaggio, lasciatele all’esercito dei selfie, ai malati di food porn e agli smartphone photographers, dal momento che per loro conta soltanto l’immediatezza.
La frustrazione della curva lenta
La curva di apprendimento legata alla fotografia è chiaramente una questione molto personale, influenzata dal tempo che dedichiamo allo studio, dalla nostra predisposizione ad imparare, dalla nostra costanza, dalla nostra cultura generale, perché no, e da una manciata di altri fattori.
Che si tratti di fotografia o di altro, il nostro apprendimento, generalmente, non è costante. Se lo rappresentassimo in un grafico, dove le ascisse rappresentano il tempo e le ordinate la quantità di nozioni apprese, vedremmo immediatamente che il nostro apprendimento disegnerebbe una curva con uno sviluppo sull’asse temporale che evidenzia un alternarsi di ripide, ma brevi impennate, seguite da fasi praticamente piatte.
Inizialmente, quasi sempre, la pendenza della curva è molto ripida. Siamo curiosi e appassionati, studiare non ci annoia, tutto è nuovo ed interessante, per cui in un tempo relativamente breve apprendiamo molte nozioni. In questo primo periodo sperimentiamo l’esatto contrario della frustrazione. È come se provassimo una certa adrenalina da apprendimento. Questa è quella che chiamo la fase tarantolata.
Poi però, inevitabilmente, la pendenza della curva si attenua e spesso assomiglia più ad una retta parallela alla sua ascissa (!). Ecco che siamo entrati nel secondo periodo, caratterizzato da una certa assuefazione, dal calo dell’interesse e rinfrancati dal bagaglio di conoscenze acquisito, sufficiente per farci produrre qualcosa che ci gratifichi il tanto che basta per tenere vivo l’interesse per la fotografia. Siamo nella fase comoda.
Nella fase comoda, la frustrazione è latente e comincia a farsi più esplicita solo se la fase si trascina oltre modo nel tempo e l’inerzia che si accumula con una curva d’apprendimento dalla pendenza pressoché piatta non basta più per tenere vivo l’interesse.
La frustrazione che ne scaturisce è da considerarsi come un campanello d’allarme: è arrivato il momento di scuoterci il torpore di dosso, di liberarci della pigrizia. Ma vi avverto, farlo può risultare piuttosto faticoso.
Il mio consiglio per vincere l’inerzia, uscire dalla fase comoda e tornare a fare impennare la curva d’apprendimento è imparare a fotografare per progetti, cercando di essere specifici, dandoci obiettivi chiari e rispettando scadenze. Fotografare per progetti ci farà tornare la voglia di imparare.
Prepariamoci: passare dalla fase comoda ad una nuova fase tarantolata costa fatica e richiede disciplina e ogni volta più della volta precedente. Prepariamoci al fatto che più diventiamo esperti e meno saranno le cose che riusciranno ad innescare la nostra curiosità e la convinzione (errata) che ormai abbiamo già fatto tutto è una zavorra mentale e fisica che imbriglia la nostra la nostra aspirazione ad esprimerci e ci appesantisce il culo sul divano.
Fotografare per progetti può essere un ottimo antidoto pratico all’apatia, ma cosa può ci può convincere a farlo, cosa ci deve convincere ad abbandonare il divano e telecomando e uscire a fotografare o prendere in mano un libro di fotografia e studiare?
La consapevolezza che ogni volta che faremo impennare la curva di apprendimento, dall’alto di quella dolorosa pendenza, potremo guardarci allo specchio e ritrovare un fotografo migliore. Vi pare poco!?
Concludendo: la frustrazione fa bene
Non solo fa bene, ma ci fa crescere come fotografi, ma soltanto se riusciremo, ognuno di noi secondo le proprie capacità e con le proprie modalità, ad attuare la seguente equazione:
FRUSTRAZIONE = MOTIVAZIONE
Imparando a gestire in modo proficuo le inevitabili frustrazioni dovute agli insuccessi, a prescindere dalla loro natura, sposteremo l’asticella del nostro approccio alla fotografia verso l’alto.
Non voglio che ci si trasformi tutti in tanti monaci buddhisti, ma semplicemente che, una volta sbottato, ci si dia da fare per leggere un insegnamento nascosto anche nella delusione e nella conseguente sensazione di frustrazione.
Andiamo oltre le scorciatoie di comodo del tipo urlare “che foto di merda!” e spingere incazzati il pulsantino con l’iconcina del cestino. Chiediamoci piuttosto cosa abbiamo sbagliato e promettiamoci di provare a scattare di nuovo qualcosa di simile – magari non subito.
L’insuccesso è di natura tecnica? Torniamo a studiare, provando a non dare nulla per scontato, ripartendo quasi dall’ABC, se necessario. Se ad esempio, tutti gli scatti della manifestazione sportiva ci sono venuti sfocati o mossi? Una volta finito di prenderci a calci nel culo, torniamo a casa e tiriamo fuori il manuale della nostra fotocamera. (Ri)leggiamolo con calma e concentriamo su tutto ciò che abbiamo dato per scontato e cerchiamo di imparare tutto quello che c’è da sapere sull’autofocus, sulle diverse modalità di AF, su quali pattern scegliere, su come impostare i punti di lettura e su come passare dalla modalità continua a quella singola o viceversa. Poi passiamo alla sezione dedicata alle modalità di scatto e agli ISO e a come sfruttare al meglio le potenzialità della nostra reflex, per evitare che le nostre lacune teoriche e tecniche ci rovinino il gusto di fotografare.
Quando l’insuccesso è legato ad una debacle tecnica, molto spesso la vera ragione è da imputare al fatto che, nonostante conosciamo la teoria, non vantiamo ancora la necessaria confidenza con le funzioni della nostra macchina e soprattutto facciamo annaspiamo a ritrovarle e ad impostarle correttamente (e rapidamente) quando stiamo per scattare.
Se invece l’insuccesso è più concettuale, che tecnico allora, prima di disfarci per sempre del corpo del reato, interroghiamoci con calma e rispondiamoci con onestà sulle ragioni di quel buco nell’acqua.
Poche domande. Ad esempio, siamo sicuri che la scena valesse poi così tanto la pena di essere fotografata? E il nostro intento!? Era davvero chiaro? C’era davvero una storia interessante da raccontare o ci stavamo semplicemente raccontando una storia?
Ma poi rincuoriamoci: solo chi non scatta non sbaglia mai!
Se invece arriviamo sul posto e troviamo un meteo disastroso? Ok, non è colpa nostra,, ma seguitare a ripetercelo non ci farà sentire meglio. Anzi, non farà che acuire la sensazione di impotenza che, ben presto, da rabbia si trasformerà in frustrazione e, se la prima sa essere passeggera, la seconda può protrarsi a lungo.
Che cosa fare in questi casi, quando ad esempio, a voltarci le spalle è il meteo? Dobbiamo evitare di darci per sconfitti e trasformare la rabbia e la frustrazione in creatività.
Trasformiamo le nuvole che ci hanno fatto arrabbiare in una strada creativa alternativa. Sfruttiamo la pioggia, le nuvole, la nebbia, il mare grosso o il mare piatto per quello che posso oggettivamente offrirci e trasformiamo la sfiga in un’occasione creativa.
La cosa funziona solamente se evitiamo di restare ancorati al piano originale che è andato a monte. Insistere generalmente produce soltanto fotografie scadenti – quelle che chiamo gli scatti monchi, proprio perché manca loro l’apporto della giusta atmosfera data dal meteo avverso.
Per cui, andiamo oltre. Pensiamo in modo alternativo. Ricalibriamo l’intento e cogliamo al meglio quello che la scena ha da offrirci, anche se questo ci costringerà a raccontare storie diverse.
Bene, siamo arrivati in fondo anche a questo post, spero non vi abbia convinto a disfarvi dell’attrezzatura e mi auguro che possa tornarvi utile nel corso degli anni.
Un’ultima massima, presa in prestito da un trainer americano: NO PAIN, NO GAIN!
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