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Mostrala ancora, Steve.

Rick siede al tavolo, nella penombra. Ubriaco. La bottiglia di whisky in una mano, il bicchiere nell’altra. Quando Sam, al pianoforte, attacca un pezzo. «Cosa stai suonando?» – lo interrompe Rick. «Una cosetta di testa mia….» «Beh, smettila. Sai quello che mi piace.» «L’hai suonata per lei… ora suonale per me!» Sam mastica una scusa. Non ricorda le parole, dice. «Suonala!»

Già, suonala, dice Humphrey Bogart in Casablanca, ma quel suonala si è trasformato per tutti in “suonala ancora, Sam.”, chissà perché poi. E dunque suonala ancora, Sam.

E Sam, da buon amico e umile pianista a cottimo, obbedisce e accontenta Bogart.

Ragazza Afghana

Ragazza Afghana – © Steve McCurry


A questo ho pensato quando l’altro ieri ho visto le affissioni con l’ormai arcinoto volto della ragazza afghana, alla scena madre di Casablanca. Ho pensato alla citazione distorta più celebre del mondo del cinema. Ho riguardato gli occhi inquietanti e inflazionati della giovane afghana, che, ormai tra una pubblicazione e una copertina, va per le 45 primavere e ho provato fastidio. Sì, fastidio!

Non ci potevo credere. Di nuovo quella mostra, di nuovo quelle foto, Di nuovo! Di nuovo Steve McCurry! Mostrala ancora, Steve. Di nuovo lui! Questa volta a Pavia, d’accordo e ho immaginato che a Pavia gli scatti di Steve McCurry non fossero ancora stati ospitati. Ma poi ho pensato che se ci mettiamo a fare il censimento dei comuni d’Italia su due colonne e in una elenchiamo quelli dove  McCurry non è stato esposto, il rischio che gli occhi algidi della ragazza afghana ci perseguitino più di Equitalia è altissimo. E non basta ribattezzare la mostra di tanto in tanto, ora “Icons”, ora “Oltre lo sguardo”, ora “Intorno all’uomo”.

SCATTANE UN’ALTRA, STEVE.

Steve McCurry per me è un’icona, una specie di miti, che neppure la scarsa attitudine alla simpatia e alle pubbliche relazioni del fotografo di Philadephia sono riusciti a scalfirne la mia personalissima riverenza. Negli anni, ho sviluppato un platonico rapporto di odio/amore con le sue fotografie e con la sua persona pubblicata. Chi mi conosce lo sa. Ho sempre ammirato il suo senso per la sintesi, il suo gusto per il colore, per la composizione, ho copiato il suo stile per cercare, col tempo, di costruirne uno mio, ho ammirato la sua esistenza avventurosa e ho collezionato praticamente quasi tutti i suoi libri, fino a quando, anche loro, proprio come le sue mostre, non sono diventate delle pregiate fotocopie a colori della pubblicazione precedente.

Scattane un’altra! Scattane una nuova, Steve! Per favore, please… risparmiaci lo stillicidio della ripetizione solo perché paga, mi sembra di vivere un dannato giorno della marmotta (!). Torna a fotografare, per favore. Per la fotografia. Smetti di fare la popstar e torna a fotografare, please.

Sono passati forse giusto tre anni da “Icons” al Palazzo Reale di Monza, che personalmente ho accusato particolarmente a causa dell’installazione, a mio giudizio pessima e penalizzante, di Peter Bottazzi Sono passati giusto tre anni, ed ecco rispuntare quegli occhi verdi che ti inchiodano da una reclame – anche se, a onor del vero, la comunicazione della mostra di Monza di tre anni fa era affidata ad un altro paio di occhi, quelli di uno sciamano. Cambia lo sguardo – la curatrice resta la mitica Biba Giacometti – ma “ICONS” comincia ad assomigliare alla coppia di testimoni di Geova di fronte a un citofono alle otto e trenta della domenica mattina.

Rajasthani with the red turban

© Steve McCurry – Pastore rajasthano


Per carità, mi direte, “mostra che vende, non si cambia”. Mi direte, “sei invidioso! Lui è bravo e famoso e tu fai cagare!”. Mi spiegherete che si tratta di un progetto itinerante e che magari non tutti sono riusciti a vedere gli scatti di McCurry cinque o sei volte come ho fatto io – e questo dovrebbe convincervi che, tutto sommato, io amo Steve McCurry. Ma è vero anche che, quella che ormai tutti i giornalisti chiamati a scriverne non riescono più a definire in altra maniera se non con “retrospettiva”,  comincia a puzzare di vecchio e ad accumulare polvere.

C’ERA UNA VOLTA UN FOTOGRAFO SENZA PAURA E SENZA MACCHIA

Inebriati dalle icone itineranti o forse anestetizzati dall’onirica ripetizione, molti forse non conoscono i primi scatti di Steve McCurry, quelli che documentano la guerra in Afghanistan tra l’Armata Rossa dell’ex Unione Sovietica e i mujahidin. Quegli scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, sono dei veri e propri capolavori del fotogiornalismo e della fotografia di guerra. Quella è roba forte, ma soprattutto è roba poco nota, mai esposta e anche se ormai vecchia di una quarantina d’anni, nuova. Oh, come vorrei girare l’angolo e imbattermi in un altro paio di occhi, quelli dello sguardo fiero del ragazzino che, Kalashnikov in spalla, si unisce alla guerriglia nella regione del Nuristan.

Young Afghan Mujahidin

Giovane mujahidin afghano – © Steve McCurry


NON ASCOLTATEMI, ANDATE A PAVIA A VEDERE “ICONS”

Vi prego, date il giusto peso al mio sfogo, cercate di capirne le ragioni, ma non lasciatevi plagiare. SE ANCORA NELLA VITA NON AVETE VISTO LE FOTOGRAFIE DI STEVE McCURRY: ANDATE A PAVIA! Se siete tra quei pochi che Steve non è riuscito a raggiungere, stile fibra attraverso marciapiedi e tombini, ANDATE A PAVIA! E se invece lo avete già potuto ammirare, scegliete secondo coscienza, ma non date troppo peso ad un fotografo brontolone (me). CLICCA QUI per accedere al sito delle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia che ospita la “Icons”.

 

Vieni in India! L’occasione giusta per sentirsi Steve McCurry. 11 giorni di viaggio fotografico in quella che un tempo era la terra dei maharajah e che da innumerevoli mostre è diventata di diritto la terra di McCurry. Non diventerai come lui, non aver paura, sono pronto a metterlo per iscritto, ma per 11 giorni avrai la possibilità di fotografare il suo mondo e i suoi volti – e potrai pure atteggiarti un po’ alla McCurry, se ti andasse. Vieni in India!

 

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