Forse è il segreto di Pulcinella, d’accordo, ma il successo di un ritratto passa molto spesso dalla capacità che abbiamo di farci coinvolgere dal nostro soggetto.
Impariamo a interagire, scatteremo un ritratto migliore
Il bello della fotografia è che non si tratta di una scienza esatta, ma che, per fortuna, ha una forte componente creativa e personale, capace di intercettare o addirittura suscitare le emozioni di chi guarda.
È proprio questa dimensione meno razionale e che con la tecnica ha poco da spartire che spesso determina il successo o meno di uno scatto.
Quante volte ci è capitato di osservare un ritratto, nostro o scattato da altri, e, nonostante tecnicamente perfetto e composto con cura, avvertire la sensazione più o meno distinta che gli qualcosa mancasse?
Purtroppo spesso e molte volte non è colpa del soggetto, ma piuttosto della scarsa empatia che siamo riusciti a sviluppare con chi posava per noi in quel momento.

© Walter Meregalli – La bimba di Jaipur – Un viso “canonicamente bello”, supportato da uno sguardo intenso e da un sorriso appena accennato
Caratteri somatici estremi per un ritratto di successo
Il ritratto è un genere fotografico subdolo.
Se facciamo mente locale, quasi tutti i ritratti si assomigliano moltissimo tra di loro, eppure, alcuni riescono ad emergere e a colpirci più di altri.
Perché un ritratto ci colpisce più di un altro?
Scartiamo i ritratti di personaggi famosi, dove quello che spesso cattura la nostra attenzione è proprio il loro status, e proviamo ad analizzare quali sono le caratteristiche che fanno il successo di un ritratto.
Sicuramente, veniamo interessati maggiormente dal ritratto di un volto che offre caratteri somatici estremi, particolarmente belli o particolarmente brutti, ma anche singolari, fuori dall’ordinario.
Ecco perché non basta un volto per avere un ritratto.
Questo è però una componente che noi possiamo soltanto allenarci a riconoscere e sulla quale abbiamo pochissima giurisdizione, se non l’obbligo di fotografare il nostro soggetto in maniera consapevole, sottolineandone gli attributi fisici.

© Walter Meregalli – Saddhu a Varanasi – Un volto per dire l’India mistica, per significare l’induisamo. Ecco un ritratto come metafora
Il ritratto come metafora
In linguistica, la metafora è una figura retorica che implica un trasferimento di significato. Portandola all’interno del linguaggio fotografico, possiamo parlare di metafora quando il soggetto del nostro scatto suggerisce un significato alternativo, ad esempio un senzatetto per la povertà, per la diseguaglianza sociale o un neonato che gattona per l’innocenza.
Il ritratto può essere una potente metafora e molto spesso è proprio questo tipo di scatto che suscita il maggiore interesse.
Il successo di chi scatto, quando è alle prese con un ritratto metafora è legato in modo particolare alla capacità di corredare lo scatto con alcuni elementi fondamentali perché chi guarda riesca a cogliere il nesso al significato più profondo, senza però che questi orpelli semantici distraggano.
In questo caso sì che molto è lasciato alla nostra capacità – alla nostra visione.
Sarà infatti la nostra abilità di scegliere i dettagli più significativi, la capacità di rendere chiara la relazione tra il nostro soggetto e questi dettagli, oltre alla facoltà di trovare un giusto equilibrio tra soggetto e contesto.

© Walter Meregalli – Tuk tuk vala che fuma – Dopo avermi chiesto una sigaretta ed essersela accesa, questo guidatore di tuk tuk ha cominciato a fumare. A volte una sigaretta può servire come chiave per stabilire una relazione.
Impariamo a stabilire una relazione
Non ho mai scattato un solo ritratto senza cercare in qualche modo di stabilire una relazione con il mio soggetto e poco importava se si riduceva a qualche sorriso o a una chiacchierata.
Primo, perché sono uno che parla molto – pure troppo, dice qualche amico. Secondo perché credo che dimostrare la voglia di stabilire una qualche relazione con chi sto per scattare, lo faccia sentire, per quanto possibile, più a suo agio.
Se si tratta di un ritratto pianificato, mi prendo tutto il tempo necessario per conoscere un po’ di più il mio soggetto. Al netto di modelle e modelli, di attori o personaggi pubblici che hanno sviluppato una certa abitudine a posare, farsi ritrarre innesca sempre una certa ansia, nonostante la sessione sia stata precedentemente concordata.
Nel caso di un ritratto pianificato, cerco sempre di destinare un po’ del tempo previsto, per fare quattro chiacchiere, senza l’imbarazzo della macchina fotografica puntata. Chiacchiere che poi è mia abitudine protrarre anche mentre scatto.
Può sembrare un ragionamento strampalato e privo di riscontri, ma vi assicuro che, per una qualche legge non scritta della fotografia, molto di quello che io e il mio ci raccontiamo in quelle quattro chiacchiere, in qualche moto, emergerà anche negli scatti,
Fare quattro chiacchiere non costa nulla, se non giusto un po’ di tempo.
Attenzione però a non trasformarle in un terzo grado. Otterremmo esattamento lo scopo opposto e cioè mettere a disagio il nostro soggetto che non vedrà l’ora di salutarci.
Quando invece il ritratto è frutto di una situazione estemporanea, ad esempio un incontro fortuito, per prima cosa mi garantisco il permesso di scattare, ma poi non mi trincero dietro la mia Nikon e liquido il mio soggetto con un paio di click, neanche si trattasse di un furto.
Ovviamente il tipo di relazione e la qualità dell’interazione che si possono stabilire in un ritratto estemporaneo dipendono dalla situazione, dal luogo, dalla possibilità di parlare lingue comuni, anche se ricordo di scatti a quali sono particolarmente affezionato nati sulla spinta di uno scambio di semplici sorrisi, talvolta accompagnati da gesti.
Non è detto che uno sconosciuto che accetta di farsi ritrarre sia poi disposto a passare molto tempo con noi. A questo proposito dobbiamo essere lesti nel comprendere quanto possiamo dilungarci e dobbiamo essere altrettanto rapidi nello svolgere l’aritmetica dello scatto e a scegliere la composizione. Il resto del tempo io lo impiego per stabilire una connessione con il mio soggetto, a qualunque livello questa mi sia concessa.
Soltanto chiacchierando si scoprono cose. Qualche volta queste cose, svelano storie impensabili, inattese. Storie che vale la pena raccontare. Ma questa è tutta un’altra questione.

© Walter Meregalli – Tuk tuk vala a Jaipur – Lo sguardo fiero e il volto incorniciato dallo specchietto raccontano due storie, quella di un giovane tuk tuk vala di Jaipur e quella della sua profonda dignità
Interagire aiuta a fare emergere le storie dietro il volto
Sì, è vero, questa è un po’ la mia fissa, ma anche la donna o l’uomo più noioso di questo pianeta può nascondere storie o aspetti singolari, in qualche modo significativi, o comunque abbastanza interessanti da essere raccontati.
Se non chiediamo, non lo sapremo mai.
Vero, una storia non sempre riesce ad emergere in un ritratto singolo, ma a volte una storia può essere anche un semplice dettaglio, un’espressione, un gesto, una posa, un segno o una cicatrice.
Al fotografo muto non è concesso di ascoltare storie, perché ha paura di chiedere.
Ritratto, tra psicologia di chi guarda, di chi posa e di chi scatta
L’ho detto, il ritratto è un genere subdolo, richiede più sensibilità che tecnica e questo, di suo offre garanzie minori per il successo.
Il ritratto è come se fluttuasse in un ipotetico triangolo, i cui vertici rappresentano la psicologia di chi guarda, quella di chi posa e, naturalmente, quella di chi scatta.
Sulla psicologia di chi guarda vantiamo pochissimo controllo, disponiamo di qualche risorsa legata al linguaggio fotografico, alla scelta dei soggetti, ad un impiego del ritratto come metafora, oltre a qualche archetipo che può pungolare il famigerato immaginario collettivo.
Per i restanti due vertici, moltissimo dipende da noi, dalla nostra capacità di entrare in empatia con chi stiamo scattando, dalla nostra abilità di condurre le dinamiche interpersonale e portare il soggetto a mostrarci qualcosa di più che non la mera maschera facciale.
Il ritratto non è un genere per timidi.
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