L’idea di questo post me l’ha data Stefano M, che mi ha contattato privatamente dalla pagina facebook Fotografia in Viaggio, chiedendomi un consiglio. Superata la prima riga di complimenti per la trasmissione – che nemmeno potete immaginare quanto mi facciano piacere e mi diano stimolo per continuare – Stefano M. ha riassunto quello che era il suo livello tecnico, mi ha confidato le sue aspirazioni, e, dopo aver allegato un paio di suoi scatti, mi ha posto una domanda cruciale.
“Che consiglio mi daresti per migliorare?”
Bella domanda! Gli ho risposto usando il buon senso e ripercorrendo quanto fatto in quasi quarant’anni, poi però la sua domanda ha continuato a ronzarmi nella testa… Che consiglio mi daresti per migliorare?… che consiglio mi daresti per migliorare?… Che consiglio mi daresti per migliorare?… così ho provato a pensare a quale potrebbe essere il consiglio che darei a tutti gli Stefani del mondo che hanno l’ambizione di migliorare, di fotografare con maggior consapevolezza, con più gusto e portando a casa risultati più soddisfacenti. Già, quale consiglio!?
Smettere di guardare e imparare a vedere. Ecco il mio consiglio.
Guardare. Vedere. Due verbi simili, due sinonimi. Verrebbe da dire che uno vale l’altro… No! Non per un fotografo, non per noi! Per noi fotografi, un abisso separa guardare da vedere e io credo che sia proprio la capacità di superare quell’abisso che ci può far migliorare.
Provo a spiegarmi meglio, perché già immagino le vostre espressioni confuse. Partiamo dalle definizioni che possiamo recuperare sfogliando un qualsiasi dizionario della lingua italiana. Entrambi i verbi fanno riferimento ad un’azione che compiamo con gli occhi, ma, mentre guardare significa “soffermare, indirizzare, volgere lo sguardo su qualcosa o su qualcuno”, vedere significa “percepire con gli occhi, venire a conoscenza di qualcosa o qualcuno attraverso lo sguardo” ed è in questa sottile, ma fondamentale differenza semantica, la chiave per migliorare, nella differenza tra la mancanza di intenzionalità di guardare, rispetto al suo sinonimo vedere. Vedere presuppone un intento, la volontà di conoscere, che sono del tutto assenti in guardare.
Guardare è importante, ma si tratta di un’azione che compiamo in modo quasi sistematico, semplicemente posando gli occhi su ciò che ci sta davanti o di fianco, in modo scontato e senza intenzione. Guardare è un’azione necessaria per chi fotografa, ma non sufficiente per chi vuole migliorarsi.

Pesci, d’accordo, ma soprattutto pattern grafici
Il miglioramento passa attraverso la nostra capacità di IMPARARE A VEDERE, e questa è un’attività che si sviluppa lentamente e con pazienza, allenandosi a farlo, addirittura costringendosi a farlo.
Imparare a vedere significa andare oltre l’ovvio e imparare a cogliere relazioni sempre più sofisticate tra gli elementi che compaiono nella scena, ma anche imparare ad usare queste relazioni per costruire inquadrature e scatti più interessanti, meno scontati, insomma, migliori, se non addirittura imparare ad usare queste relazioni per motivare gli scatti stessi(!). Sì, avete letto bene, ho scritto proprio “motivare”. Quante volte, davanti alla foto scattata da un altro, ci è capitato di esclamare “ma come ha fatto!? io mica l’avevo visto”. Appunto! Io mica l’avevo visto! Il nocciolo della questione è questo e ancora una volta si tratta del verbo vedere. Imparare a vedere significa cogliere aspetti inusuali, sottolineare connessioni intriganti, andare oltre il banale.
Imparare a vedere e’ un’esperienza personale
Proprio così, nessuno potrà mai insegnarci a vedere. Chiunque potrà raccontarci quello che vede o che ha visto – o che ci ha visto. Chiunque potrà condividere con noi la sua personalissima esperienza, ma non potrà mai e poi mai spiegarci come imparare a vedere. Lo so, potrebbe sembrare un tantino frustrante, ma è anche il bello della fotografia, quello che rende i nostri scatti in qualche modo unici, personali e diversi da quelli altrui.
Gli occhi non c’entrano
Imparare a vedere è un processo che, con gli occhi, forse ha davvero poco a che fare e, parafrasando l’antico adagio “sei quello che mangi”, oserei dire “vedi quello che sei“. Proprio così, vedere, nel senso strettamente legato al nostro scopo, ha più a che fare con quello che in realtà siamo, con i libri che leggiamo, con la musica che ascoltiamo, con i film che abbiamo apprezzato, con le mostre a cui siamo andati, con i nostri interessi, con la nostra curiosità, con le nostre passioni.
Chi prova una forte attrazione per il design svedese e per la pulizia delle sue linee, forse avrà più facilità ad approcciarsi alla scena con inquadrature asciutte e rigorose. Chi ama Caravaggio, immagino, riuscirà a vedere senza nessuna difficoltà i contrasti tra luce e ombra e li porrà al centro del proprio intento, affidando proprio a questa dicotomia (luce/ombra) il senso primario del suo scatto. Chi invece nutre una passione per le canzoni di Springsteen o di Bob Dylan, o per i romanzi di Phil Roth, probabilmente adotterà un approccio più da narratore, da story teller, anziché affidarsi a scatti molto grafici o rigorosi. Questo per dirvi che sono personalmente convinto che il nostro percorso per migliorarci passi attraverso processi cognitivi che vanno ben oltre gli occhi e la vista.
Vediamo ciò che siamo. Dobbiamo imparare ad abbattere le barriere della percezione visiva e lasciare che tutti gli aspetti della nostra vita contaminino il nostro modo di fotografare. La fotografia non è soltanto tecnica – la tecnica la imparano anche i muli, come diceva il mio maestro e amico Pietro Donzelli (!). La fotografia, per fortuna, è anche creatività, anche istinto, anche passione e tutte queste dimensioni, così intime, così personali, sono il prodotto (grazie a dio non in senso strettamente matematico) della nostra personalità, della nostra cultura, delle nostre passioni e dei nostri interessi, contaminando e allenando la nostra capacità di vedere.

Cosa può esserci mai di interessante nello sportello del deposito per le scarpe del Tempio d’Oro di Amritsar? Forse nulla, se non mi fossi lasciato influenzare da uno scatto di Raghu Rai, se non mi fossi lasciato intrigare dal gioco di parole con “stand” – restare fermi – scritto su uno dei vetri e la gente in movimento, messa in relazione con le “scarpe immobili”. Se avessi pensato solo alla tecnica e solo alla fotografia, forse non avrei scattato. E invece, un banale deposito per le scarpe si è trasformato in uno scatto interessante e per nulla scontato. È una questione di “vedere” relazioni sempre più sofisticate. Inoltre credo che questo scatto sintetizzi in modo eclatante come sia necessario avere una certa padronanza della tecnica e come la tecnica debba fornire una base solida sulla quale costruire uno scatto.
Vedere per comporre. Comporre per comunicare ed emozionare
Potrei anche lasciare soltanto il titoletto e saltare a piè pari il paragrafo, tanto mi pare ovvio il concetto.
Più impariamo a vedere e più il nostro modo di comporre saprà essere personale, unico, intrigante, sofisticato e altro ancora – scegliete voi! E dando, per scontato un soggetto quanto meno interessante, supportato da un’intento solido e chiaro, se anche la composizione sarà efficace, il nostro scatto ha buone chance di dirsi interessante. Non mi pare poco per chi ha appena dichiarato la propria volontà di migliorarsi.

Giocando con i profili, con le ripetizioni e con la luce ho prodotto uno scatto piuttosto insolito per una cartella stampa
Eccoci arrivati in fondo a questo post, devo dire che non avevo immaginato quanto potesse essere difficile riuscire a scegliere un solo consiglio, ma, alla fine, mi sento piuttosto soddisfatto. Speriamo anche voi – mi sa che ora scriverò di nuovo all’amico Stefano M. A questo punto, non mi resta che ricordarvi di non avere fretta, ma di provarci tutti i giorni.
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